Perché limitarsi ad un unico genere cinematografico quando è possibile sognare, ridere, piangere, spaventarsi, ballare ed eccitarsi con quella variegata meraviglia che chiamiamo ‘settima arte’?
Eppure tutti noi, chi più chi meno, abbiamo preferenze vagamente esplicite, tra commedie e film drammatici, biopic e titoli d’autore, blockbuster e cinecomics, horror e musical, war e gangster movie, polizieschi e thriller, titoli erotici e storici, sci-fi e lungometraggi animati.
Ci sono poi pellicole in grado di abbracciare più opzioni, spaziando in due ore circa tra i generi, all’interno di un quadro tanto ricco da potersi definire decisamente esaustivo.
Un film è di fatto una forma d’arte, con quell’invidiabile capacità narrativa in grado di abbracciare immagini e scrittura che è presto diventata imprescindibile, in qualsivoglia società.
Partendo da un’idea, anche la più semplice, che chiamiamo ‘soggetto’, il film prende lentamente forma grazie a quello passaggio successivo definito ‘sceneggiatura’, autentica Bibbia a cui affidarsi per poter arrivare ad un ragionato e apprezzabile svolgimento. Con la produzione vera e
propria, che coinvolge regista, attori e tecnici, l’opera assume concretezza fisica, prima di passare a quel montaggio che dobbiamo definire anello centrale di una catena produttiva dalle mille professionalità e dai molteplici passaggi. Ciò che arriva ai nostri occhi non è altro che il prodotto
finale di un lungo e complesso lavoro che ha visto coinvolti decine e decine di professionisti, costretti al giudizio dello spettatore pagante e di quei critici spesso ‘denigrati’, perché colpevoli di applaudire o stroncare una pellicola secondo quelli che molti giudicano ‘giudizi personali’.
Un epocale conflitto, quello sull’utilità e la necessità della critica cinematografica (e non), mai come in questo momento attuale, vista la realtà social che ha ampliato a dismisura la platea di critici su piazza. Al di là della soggettività, una recensione deve saper attingere anche da basi
oggettive, che potremmo definire tecniche, legate ai dialoghi, alle scenografie, ai costumi, alla fotografia, al montaggio, alla regia, alla recitazione, alle musiche, a quella forma dl ‘giudizio’ rimarcata da Immanuel Kant, secondo cui la critica non è altro che “la facolta di esprimere giudizi”. Un gradino, quello che vede l’opinione evolversi in altro, in cui dal campo del ‘gusto’ si passa per l’appunto a quello della ‘critica’.
Quanto una recensione cinematografica, positiva o negativa che sia, possa poi influire sull’andamento in sala di un film, è il più delle volte facilmente intuibile. Per anni i tanto vituperati cinepanettoni Filmauro sono stati massacrati dai critici per poi calamitare al cinema milioni di italiani, mentre decine di titoli d’autore e di nicchia premiati nei Festival e acclamati dalla stampa internazionale hanno spesso raccolto briciole al botteghino.
E’ indubbio come una buona recensione possa incuriosire una platea di cinefili particolarmente assortita, oltre a compiacere i vari uffici stampa e le immancabili case di distribuzione, ma anche una devastante stroncatura potrebbe paradossalmente incuriosire lo spettatore medio, attratto da
quel fascino dell’orrido che spesso si annida in titoli non a caso definiti ‘scult’. C’è poi un evidente scollamento tra chi vive di cinema, con centinaia di film ogni anno visti per puro lavoro, e chi si ritrova in sala una o due volta al mese, pagando, alla ricerca di una leggerezza che possa
cancellare le complessità della quotidianità. “La critica è… la sorella gemella, secondogenita, rachitica e gelosa dell’arte stessa. E’ al suo
servizio”, ha scritto il celebre critico del New York Times Anthony Oliver Scott nel suo Elogio della critica, edito in Italia da Il saggiatore.
Una critica nei confronti della critica per ribadirne l’importanza e la necessità, affidando al lettore strumenti utili per uno stimolo, che possa anche diventare semplice confronto.